Incidente del 31 marzo

Incidente del 31 marzo, attacco alla caserma di artiglieria, Taksim.

L'incidente del 31 marzo[1][2] (in turco 31 Mart Vakası, 31 Mart Olayı , 31 Mart Hadisesi, o 31 Mart İsyanı) fu una crisi politica all'interno dell'Impero ottomano nel 1909, durante la Seconda era costituzionale. Avvenuto subito dopo la Rivoluzione dei Giovani Turchi del 1908, in cui il Comitato dell'Unione e del Progresso (CUP) aveva restaurato con successo la costituzione del 1876 e posto fine al governo assoluto del sultano Abdul Hamid II, l'evento fu in parte una risposta reazionaria degli islamisti sostenitori dell'assolutismo e contrari all'influenza della secolarizzazione del CUP.[3]

La crisi iniziò con un ammutinamento tra le truppe d'élite macedoni della guarnigione di Istanbul nella notte del 12-13 aprile 1909 (corrispondente al 30-31 marzo secondo il calendario giuliano) scatenata dall'agitazione dei fondamentalisti musulmani, dal morale basso e dalla cattiva gestione degli uffici. I disordini andarono rapidamente fuori controllo quando vari studenti religiosi e altri elementi della guarnigione della città si unirono all'insurrezione, convergendo in Piazza Ayasofya per chiedere il ripristino della sharia. Il governo allineato al CUP del Gran Visir Hüseyin Hilmi Pasha rispose in modo inefficace e nel pomeriggio del 13 aprile la sua autorità nella capitale era crollata. Il sultano accettò le dimissioni di Hilmi Pasha e nominò un nuovo governo libero dall'influenza del CUP sotto Ahmet Tevfik Pasha. I membri del CUP fuggirono dalla città per la loro base di potere a Salonicco dove proclamarono illegale il nuovo ministero e tentarono di radunare laici e minoranze a sostegno della loro causa. Per un breve periodo le due autorità rivali pretendevano ciascuna di rappresentare il governo legittimo. Questi eventi innescarono il massacro di Adana, una serie di pogrom anti-armeni organizzati da funzionari locali e religiosi islamici in cui furono uccisi da 20000 a 25000 tra armeni, greci e assiri.

La rivolta fu soppressa e il precedente governo restaurato con elementi dell'esercito ottomano simpatizzanti del CUP formarono una forza militare improvvisata conosciuta come Hareket Ordusu (Esercito d'Azione), entrato a Istanbul il 24 aprile dopo il fallimento dei negoziati. Il 27 aprile, Abdul Hamid II, accusato dal CUP di complicità nella rivolta, venne deposto dall'Assemblea nazionale e suo fratello, Mehmed V, fu nominato sultano. Mahmud Shevket Pasha, il generale militare che aveva organizzato e guidato l'Hareket Ordusu, divenne la figura più influente nel restaurato sistema costituzionale fino al suo assassinio nel 1913.[4]

La natura precisa degli eventi è incerta. Gli storici hanno offerto diverse interpretazioni che vanno da una spontanea rivolta di malcontento a una controrivoluzione segretamente pianificata e coordinata contro il CUP. La maggior parte degli studi contemporanei ignorano le affermazioni che il sultano era attivamente coinvolto nel complotto della rivolta,[5] sottolineando la cattiva gestione delle truppe da parte del CUP nella formazione, fino all'ammutinamento e al ruolo dei gruppi religiosi conservatori.[6] La crisi fu un importante momento iniziale nel processo di disintegrazione dell'impero, stabilendo un modello di instabilità politica che sarebbe continuato con i colpi di stato militari nel 1912 e nel 1913. La temporanea perdita di potere portò alla radicalizzazione all'interno del Comitato di Unione e Progresso, con una conseguente crescente disponibilità tra gli unionisti a utilizzare la violenza.[7] Alcuni studiosi hanno sostenuto che il deterioramento delle relazioni etniche e l'erosione delle istituzioni pubbliche durante il 1908-1909 hanno indotto il genocidio armeno.

  1. ^ Roberto Sciarrone, L'Impero ottomano e la Grande Guerra: Il carteggio dell'addetto militare italiano a Costantinopoli (1914-1915), Edizioni Nuova Cultura, 9 luglio 2015, p. 105, ISBN 978-88-6812-520-2. URL consultato il 27 luglio 2021.
  2. ^ Alberto Rosselli, Il movimento panturanico e la "grande Turchia": tra mito, storia e attualità, Settimo sigillo, 2007, p. 67, ISBN 978-88-6148-030-8. URL consultato il 27 luglio 2021.
  3. ^ Gawrych, 2006, pp. 167-168.
  4. ^ Shaw, 1976, p. 282.
  5. ^ Swenson, 1970, p. 171.
  6. ^ Gingeras, 2016, p. 36.
  7. ^ Gingeras, 2016, p. 38.

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